Montagne
dell’Afghanistan sulla via per Kandahar. Estate 1983.
Era stato in attesa per molto tempo, ma finalmente la sua pazienza stava
per essere ripagata. Il suo bersaglio era sulla terza auto. Un tempo doveva
essere stata una bella auto, un’auto di lusso, ma gli anni ed un uso
sconsiderato avevano preteso il loro pedaggio. Non sarebbe durata a lungo, ma
forse più dei suoi attuali occupanti.
Non sapeva chi fosse il suo bersaglio e non era suo compito saperlo,
lui doveva solo eseguire i suoi ordini ed i suoi ordini erano di ucciderlo. Non
era il primo omicidio che compiva e non sarebbe stato l’ultimo.
Il bersaglio viaggiava con una donna e con un bambino di non più di 5
anni. Molto stupido da parte sua portarli in zona di guerra, ma non era un
problema suo.
Non sentiva nessuna emozione mentre premeva il grilletto del suo fucile
di alta precisione, il meglio che l’industria bellica sovietica poteva offrire.
Il primo colpo prese in pieno il suo bersaglio principale. Lo vide sobbalzare e
ricadere sul sedile in grembo alla donna. Non poteva udirla ma capì che stava
gridando terrorizzata. Un secondo colpo la colse in piena fronte ed un terzo
prese l’autista. L’auto sbandò e finì contro il ciglio della strada. Solo
allora il resto del convoglio si accorse di quanto era successo.
Di lì a poco avrebbero capito da dove erano venuti i colpi che avevano
ucciso il loro capo e sarebbero saliti fin lassù, ma per allora lui se ne
sarebbe già andato, scomparso come un fantasma, e fantasma l’avrebbero chiamato
poi avrebbero usato un altro nome, il nome della leggenda che era diventato: il
Soldato d’Inverno.
VA E UCCIDI
Di
Carlo Monni & Carmelo
Mobilia
Aeroporto John Fitzgerald Kennedy, Queens, New
York, oggi.
Era un giovanotto ben vestito, all’apparenza un viaggiatore come tanti.
Non dimostrava più di 35 anni ed aveva due occhi scuri e indagatori. La sua
carnagione olivastra avrebbe potuto qualificarlo come straniero, ma in un paese
multietnico come gli Stati Uniti non si poteva esserne realmente sicuri.
Raggiunse senza fretta lo sportello della Dogana e mostrò il passaporto ad un
funzionario dall’aria annoiata.
<Cosa la porta negli Stati Uniti, mr. Alì Bey.> chiese questi
<Turismo o affari?>
La voce dell’uomo aveva un accento con echi di Eton e Oxford quando
rispose:
<Un po’ di entrambe le cose.>
Lee Academy,
Connecticut.
Nella sala professori, Steve Rogers stava facendo le ultime correzioni
ai compiti degli studenti del suo corso di storia dell’arte quando sentì il
familiare ronzio del comunicatore datogli da Nick Fury.
Nonostante
avesse passato diversi anni a comunicare in quel modo, da quando si era
ritirato dalla vita da supereroe aveva un po’ perso l’abitudine a quel genere
di chiamate.
Si accertò che non ci fosse nessuno nei pressi, poi indossò delle cuffie ed
attivò finalmente il comunicatore mettendosi in ascolto della familiare voce di
Nick Fury:
<<Buongiorno Steve, temo di avere un’altra grana per te e la
tua squadra. Ieri mattina è arrivato al J.F.K. un uomo con passaporto saudita
rilasciato a nome di Ali Bey. L’emiro Ali Bey non esiste, era uno degli alias
usati dal Barone Strucker quando ancora non si sapeva che era vivo ed era il
Supremo Hydra. Quel nome ha generato un
allarme automatico nei sistemi di sicurezza dello S.H.I.E.L.D. Un successivo
controllo di riconoscimento facciale dalle immagini ricavate dalle telecamere
dell’aeroporto non ha dato risultati: quel volto appartiene a qualcuno che
potrebbe essere afgano, pakistano o addirittura iraniano, ma non compare nei
nostri database. Questo non vuol dire nulla, però. Quando era ancora la branca
scientifica dell’Hydra, l’A.I.M., aveva sviluppato una macchina che permetteva
una plastica facciale istantanea e la creazione di maschere perfette di cui
Strucker si serviva spesso per cambiare identità e, sempre che davvero ci sia
l’Hydra dietro tutto questo, il nostro uomo potrebbe averla usata. Non è tutto: nelle successive due ore, ad
un’ora di distanza l’uno dall’altro, sono arrivati nello stesso aeroporto un
cittadino canadese di nome John Bronson ed un messicano di nome Don Manuel
Caballero, tutti alias già usati da Strucker. Anche in questo caso il
riconoscimento facciale non ha dato risultati. Credo che sia impossibile che
chiunque abbia organizzato questa faccenda, sia o meno l’Hydra, potesse davvero
pensare che questi uomini passassero inosservati, quindi voleva attirare la
nostra attenzione. Normalmente non scomoderei la tua squadra per una cosa
simile, ma in questo momento non posso occuparmene personalmente[1]
ed ho la spiacevole sensazione che dietro a questa messinscena ci sia qualcosa
di veramente grosso per cui ti sarei davvero grato se volessi darci un’occhiata.>>
Mentre la registrazione si cancellava automaticamente Steve non poté
fare a meno di sorridere. Nick lo conosceva tanto bene da essere certo che non
si sarebbe tirato indietro.
Steve fece un leggero sospiro. Per fortuna il giorno dopo non aveva
lezione e quindi non ci sarebbe stato bisogno di inventare scuse col preside.
Gli sarebbe toccato passare la domenica a finire le correzioni, però.
Gli svantaggi del condurre una doppia vita.
Una tranquilla stanza
d’ospedale a Queens, New York, City.
James Buchanan Barnes esitò per qualche istante, poi si decise. Si
poteva quasi considerare buffo che lui, che da ragazzino aveva affrontato super
minacce naziste e cambiato i destini della Seconda Guerra Mondiale almeno un
paio di volte, ora fosse intimidito ad affrontare una donna di quasi
novant’anni sdraiata in un letto d’ospedale. Naturalmente il problema, se così
si poteva dire, era che quella donna era sua sorella e che erano passati più di
75 anni dall’ultima volta che si erano visti, un tempo molto lungo, anche se
lui ne aveva passato la maggior parte in ibernazione, il che spiegava come mai
dal 1937 fosse invecchiato appena di una quindicina d’anni circa. Non si poteva
dire lo stesso di sua sorella, purtroppo.
Sembrava così fragile ed era colpa sua se era finita in ospedale: il
suo cuore non aveva retto allo shock di saperlo ancora vivo. Per fortuna non si
era rivelato un attacco grave.
Le sfiorò la mano e lei aprì gli occhi.
<Ciao, Becca.> la salutò lui.
<Jimmy… allora sei davvero tu.> disse Rebecca Barnes Proctor con
voce flebile.
<Sì, Becca, sono io. Mi… mi dispiace per
averti causato… questo.>
<Oh, sciocchezze... sono ancora viva no?
E, credimi, voglio restarlo ancora a lungo, specie ora che sei tornato. Come
hai fatto a sopravvivere a quell’esplosione? E come mai sei ancora così
giovane? Sei staro ibernato come il tuo amico Capitan America?>
<Qualcosa del genere, è una lunga
storia.>
<E tu raccontamela. Io non vado da nessuna
parte e tu?>
<Neanch’io… credo.> rispose Bucky con
un accenno di sorriso.
Raccontò alla sorella tutta la sua storia: di
come l’esplosione dell’aereo sperimentale che aveva tentato di fermare gli
avesse tranciato il braccio sinistro, di come i Sovietici lo avessero ripescato
al largo del Canale della Manica e grazie al lavaggio del cervello lo avessero
trasformato in un implacabile assassino e solo di recente avesse ritrovato la
coscienza di sé.
<Oh Mio Dio, quante ne hai passate Jim… ma
ora sei libero.>
<Libero? Non lo so, Becca. Solo di recente
ho cominciato a ricordare pienamente chi ero ed a capire chi ero diventato. A
capire quanto sangue c’è nelle mie mani, quante vite innocenti ho
distrutto.>
<Ma quello non eri davvero tu. I veri
responsabili sono quelli che ti avevano trasformato in quell’insensibile
macchina di morte.>
<Lo dice anche il mio psichiatra, un tipo
bizzarro coi capelli verdi, ma io mi chiedo… e se fosse stata quella la mia
vera natura? Se sotto sotto io fossi un killer? In fondo non facevo lo stesso
coi nazisti durante la guerra?>
<Quello era… diverso. In guerra si fanno
spesso cose che non si farebbero mai in altre circostanze. Mio figlio Jimmy…
sì, gli ho dato il tuo nome… era nell’esercito. È stato in Vietnam e quando è
tornato, mi ha raccontato cose che fanno accapponare la pelle. Tu sei una brava
persona Jimmy. Magari eri un po’ scapestrato, ma eri un bravo ragazzo. Non
lasciare che questa cosa ti distrugga>
<Io… ci proverò, Becca.>
In quel momento il cellulare di Bucky squillò
e lui rispose prontamente:
<Cosa? Ok sarò puntuale.> chiude la
comunicazione e si rivolge alla sorella <Devo andare, Becca.>
<Capisco, ma non sparire di nuovo, mi
raccomando. Ora che sei tornato hai un bel po’ di nipoti e pronipoti che
sarebbero felici di conoscerti.>
<Davvero? Ti confesso che un po’
m’imbarazza avere dei nipoti che sembrano più vecchi di me.>
<Tu imbarazzato per qualcosa? Questa sì
che sarebbe una novità per il Jimmy Barnes che conoscevo.>
<Davvero? Beh evidentemente ti ricordi più
cose sul mio conto di quanto me ne ricordi io ... ma ti prometto una cosa:
tornerò a trovarti presto, Becca. Abbiamo tante cose da dirci, tanto tempo da
recuperare.>
<Sai dove trovarmi, fratellino. La porta
di casa mai sarà sempre aperta per te.> Si scambiarono un affettuoso
abbraccio, poi Rebecca lo guardò uscire e pensò: bada a te, fratellino.
Villa Carter, in Virginia.
Un bacio a sua
figlia, un abbraccio accompagnato ad un “mi
raccomando, fai la brava” e poi uscire di casa per andare al lavoro. Una
scena ordinaria per ogni madre. Peccato che Sharon Carter fosse tutt’altro che
“una madre ordinaria”. Come si può definire tale, infatti, una donna che nel
corso della sua esistenza è stata una spia, un soldato di fortuna e l’amante
del più grande eroe d’America? Neppure la nascita della piccola Shannon aveva
fatto desistere la donna dal continuare quella vita avventurosa ... niente da
fare, le storie raccontatele da sua zia Peggy da bambina le erano entrate nel
sangue e ne avevano influenzato le scelte di vita.
Ma è davvero per
questo, per il gusto dell’avventura, che non aveva rinunciato? O forse era per
via di Rogers? La sua “morte” l’aveva molto colpita, e aveva giurato di trovare
il suo assassino... ma dopo la sua ricomparsa, quale molla l’aveva spinta ad
continuare? La salvezza di Bucky? Ok, ma adesso il ragazzo è tornato a casa...
più o meno. E allora? Forse s’era sentita punta sul vivo quando Steve l’aveva
provocata in palestra?[2]
In fondo, in cuor suo sapeva che c’era del vero, in quello che le aveva detto
quella volta.
Erano tante,
troppe, le cose rimaste irrisolte tra loro ... troppi misteri, troppe lacune da
colmare. Che fosse per questo che era rimasta nel team?
La sua riflessione
venne bruscamente troncata dal rombo di una moto che le passò accanto e le
tagliò la strada.
<Ciao
Bionda...>
<Jack? Che ci
fai qui?>
<Come sarebbe “che ci fai qui?” Non mi chiamo Nomad
mica per niente... io vado dove mi pare!>
<Intendevo dire
qui da me, non qui in Virginia... ci sono problemi?>
<No, nessun
problema... avevo accompagnato Bucky a conoscere sua sorella, poi ho deciso di
lasciarli soli... hanno decenni da recuperare, in fondo... poi, già che ero in moto, ho deciso di venire
a trovarti. Sai con la vita che ho fatto, non è che abbia molti amici da
visitare... e poi, ti volevo anche parlare.>
<Ah si? E di
cosa?> chiese la donna.
<Innanzitutto,
non ti avevo ancora ringraziato per avermi tirato fuori dal laboratorio di
Machinesmith...>
<Non ho fatto
mica tutta da sola. E poi, avresti fatto la stessa cosa anche tu per me ...>
<E allora
parliamo di quanto accaduto con Zakharov. Gli altri ... Steve ... non sanno le
cose tremende che hai dovuto sopportare. Io si, ero lì, ho visto tutto, e so
quanto ti ha provato...>
<Sono le stesse
che hai patito tu... e poi non ne voglio parlare ....>
<Invece
dovresti. Io sono un supersoldato ... o almeno lo sono biologicamente ....
mentre tu non sei nulla di speciale. Cioè, intendevo dire .... tu sei
straordinaria, ma ...>
<Ho capito quel
che intendevi. Ma non capisco dove vuoi arrivare ...>
<Che forse
dovresti cominciare ad abbassare la guardia e aprirti con qualcuno ... e potrei
essere io. La russa è un’estranea, Buck ha già i suoi problemi, e Steve ....
beh non so cosa ci sia tra voi ma è evidente che c’è un muro che t’impedisce di
confidarti con lui...>
Sharon non sapeva
cosa rispondergli. Lo squillo del cellulare fu provvidenziale.
<Steve?>
disse rispondendo.
<<Sharon, devi tornare alla base. Ho sentito Nick,
abbiamo una missione della massima importanza.>>
<D’accordo. Sono
qui con Jack. Arriveremo al più presto.>
<<Bene. Ci vediamo qui.>>
<Che succede?>
chiese Nomad.
<Pare che ci
siano guai.>
<Di che
genere?>
<Non me lo ha
detto, ma ha fatto il nome di Nick, quindi dev’essere roba grossa.>
“Magnifico, proprio
quel che mi serviva” pensò Jack, ma si limitò a dire semplicemente:
<Dai, monta su.>
Apparentemente
erano solo due avventori qualunque: l’uomo poteva avere 50 anni, aveva i
capelli tagliati molto corti e color
grigio ferro, il portamento rigido. Poteva anche vestire un abito comune ma un
osservatore attento avrebbe potuto identificarlo quasi immediatamente come
militare o, al limite, ex militare. La cosa comunque non sarebbe stata
considerata tanto insolita in quel bar frequentato spesso da tipi del genere.
La ragazza con lui dimostrava meno della
metà dei suoi anni: era bionda, slanciata, un viso quasi da bambola ed
un’espressione corrucciata che la faceva sembrare ancora più sexy. Indossava
una camicetta bianca con i primi bottoni slacciati ed una gonna nera lunga
appena sopra il ginocchio, ma con spacchi laterali. Era consapevole di essere
oggetto degli sguardi maschili ma non sembrava importargliene.
L’uomo si concesse
un mezzo sorriso.
<Sono lieto che
abbia accettato il mio invito, tenente Belova.> disse a voce bassa in Russo.
<Ero…
curiosa, colonnello.> rispose
Yelena Belova.
<Una buona dote
per un agente segreto> ribatté l’altro. Il colonnello Anatoly Vladimirovich
Serov era ufficialmente il vice addetto militare dell’Ambasciata Russa a
Washington, ma in realtà era il capo della sezione americana del servizio
segreto militare russo, meglio noto come G.R.U. e la ragazza davanti a lui era
il motivo per cui era venuto a New York, ma i suoi motivi avevano poco o nulla
a che far col fatto che lei era una donna bella e giovane, per quanto Serov
doveva ammettere che un pensierino a certe attività orizzontali con lei gli era
passato per la mente dopotutto.
<Cosa vuole da
me, Colonnello?> chiese ancora Yelena.
<Solo qualche
notizia su quella squadra segreta a cui è stata distaccata.>
<Quale squadra
segreta?> Yelena avvertì la stessa sensazione di chi sta pattinando sulla
superficie di un lago ghiacciato ed avverte le prime crepe sotto i piedi.
<Non prendiamoci
in giro, tenente. Lei è stata distaccata dal G.R.U. allo S.H.I.E.L.D. su
espressa richiesta di Yuri Brevlov e Nick Fury dopodiché è stata inviata qui
negli Stati Uniti, dove, a quanto pare è scomparsa dall’orizzonte: il suo nome
non compare negli elenchi degli agenti operativi, il suo attuale indirizzo è
sconosciuto e così il suo numero telefonico.>
<Eppure lei è
riuscito a trovarmi.>
<Lei più di
tutti dovrebbe sapere quanto siamo efficienti. Siamo sempre un passo avanti al
S.V.R.[3]
e ce ne vantiamo.>
<Cosa vuole da
me?>
<Lo ha capito
benissimo: voglio tutte le informazioni che ha sull’unità a cui l’hanno
assegnata, i nomi di chi ne fa parte ed i suoi scopi. Lei è ancora una
cittadina russa, un membro delle forze armate e come suo superiore io glielo
ordino.>
Yelena si morse il
labbro inferiore. Si aspettava qualcosa di simile. Cercò di calibrare bene le
parole. Non voleva offendere il suo interlocutore:
<Mi dispiace,
colonnello, ma non posso obbedire. Quando sono… stata assegnata qui sono stata
svincolata dalla normale gerarchia di comando… a tutti gli effetti sono
un’agente libera. Solo un ordine diretto del Presidente potrebbe cambiare le
cose ed io so che lei non ce l’ha. Non è forse vero?>
L’altro non
rispose.
<Lo immaginavo.
Buona giornata colonnello.>
Yelena si alzò e si
diresse a passo svelto verso l’uscita del locale. Sapeva che certe cose
sarebbero accadute prima o poi, ma la cosa non la confortava. Sperava che Serov
non volesse insistere in quella liea linea d’azione, ma non era ottimista al riguardo.
Forse si sarebbe resa necessaria una telefonata a Mosca per sistemare le cose.
Questo le fece venire in mente che ora avrebbe dovuto farsi dare un nuovo
cellulare criptato da Amadeus Cho: quello che aveva adesso non era più sicuro
dopo che il G.R.U. ne aveva rintracciato il numero.
Era appena uscita
che il suo cellulare squillò. Era Rogers:
<Sì, capisco
arrivo subito.> rispose secca e decisa.
In pochi minuti era
a bordo di un taxi diretto a Manhattan.
Base dei Vendicatori Segreti, Manhattan, New York
City. Un’ora dopo.
Steve Rogers, con indosso la sua uniforme da
battaglia guardò verso i suoi alleati e terminò di parlare:
<… e questo è tutto. Domande?>
<Una sola… > intervenne Nomad.
Indossava il suo costume ma con la maschera calata <Hai detto che quei tre
nomi erano stati usati dal Barone Strucker in passato. Bene… è chiaro che
almeno due di quei tizi non sono lui e se volete la mia opinione, nemmeno il
terzo, tuttavia forse qualcuno vuol farci credere che dietro a tutto c’è
proprio l’Hydra.>
<E tu non ci credi?> gli chiese il
Soldato d’Inverno. Anche lui era in tenuta da combattimento, ma a differenza di
Jack indossava la sua mascherina domino.
<Non so.> ammise Jack. <Il fatto è
che questa cosa è così scoperta, così evidente. Quale organizzazione
terroristica manderebbe a compiere un attentato degli agenti immediatamente
riconoscibili come tali? Mi sembra un…>
<… Un depistaggio, è questa la parola,
giusto?> aggiunse Yelena Belova nei panni della Vedova Nera, perfetta nel suo
costume attillato <Hai ragione questi tre servono a distrarci dal vero
bersaglio… qualunque esso sia.>
Steve era abbastanza contento che i membri
della sua squadra si scambiassero idee e non fossero solo semplici esecutori di
ordini. Poteva essere importante nel creare quel senso di cameratismo, di
appartenenza necessario ad ogni squadra degna di questo nome,
<Questo è proprio ciò che dobbiamo
scoprire.> disse <Quale che sia il loro ruolo, quei tre hanno la chiave
del rompicapo e noi dobbiamo ottenerla.>
<Quanta libertà d’azione abbiamo?>
chiese Bucky.
Steve fissò negli occhi il suo vecchio
compagno d’armi.
<I miei limiti li conoscete tutti: niente
forza letale se non per legittima difesa e niente tortura. Per il resto mi
affido al vostro buon senso.>
<Grazie di averci dato credito di averne
uno.> replicò ancora Jack.
Steve abbozzò un sorriso.
Cambridge, Massachusetts.
Kim Song Ryuhi era ufficialmente un giovane
ricercatore sud coreano che aveva vinto una borsa di studio per il prestigioso Massachusetts Institute of Technology. Lavorava part-time nel jet market
di alcuni suoi connazionali emigrati qui anni prima. Ma stasera, vedendo il
proprietario e i suoi colleghi barbaramente trucidati sul retro del negozio
aveva capito che la sua copertura era saltata. S’era forse tradito? O forse
qualcuno aveva parlato? Fatto sta che, sentendosi con le spalle al muro, uscito
dal minimarket aveva cominciato a camminare a passo svelto, guardandosi intorno
con circospezione. SI, perché Kim Song Ryuhi in realtà si chiamava Pak Nam
Chol, aveva 6 anni di più di quelli dichiarati ed era in realtà una spia
nordcoreana, come lo erano gli altri commessi.
Dopo pochi minuti
si accorse che i suoi timori erano fondati perché vide alcuni uomini vestiti di
nero che lo stavano inseguendo, e allora si mise a correre a più non posso.
Sapeva che se lo avessero preso avrebbe fatto la fine dei suoi complici. Girò
un angolo e si infilò in un vicolo per riprendere fiato. Forse ce l’aveva
fatta.
Notò una scala
antincendio accessibile. Un vero colpo di fortuna. Vi salì sopra ripiegando la
rampa d’accesso. Ce l’aveva fatta. Saliva lungo i gradini metallici convinto di
averla ormai sfangata, ma non appena raggiunse il tetto fu colpito da un
proiettile alla nuca. Morì sul colpo, col cranio spappolato. Il suo corpo
precipitò cadendo verso il vicolo.
Il colpo era stato
sparato da parecchie miglia di distanza. Il cecchino era un uomo da capelli
bianchi, completamente vestito di rosso. D’altronde, se scegli come nome in
codice “Crimson Commando” non puoi fare diversamente. Il suo braccio destro,
dal gomito in giù, era di metallo; sull’avambraccio aveva attaccato un piccolo
ma letale fucile. Il suo occhio destro era stato rimpiazzato da un mirino ad
infrarossi, ad alta precisione. Era stato grazie a quelle migliorie che aveva
potuto eseguire quel colpo così perfetto da una distanza così grande.
<Qui Crimson
Commando. Il bersaglio è stato eliminato. E’ bastato un colpo solo. Sì, era
dove mi avevate detto, nessun problema. Chiudo.>
<Credevo fossi
morto, Frank ...> disse una voce alle sue spalle. L’uomo si voltò di scatto,
puntando il suo braccio armato. Non appena vide chi era il suo interlocutore
però lo abbassò.
<Michael.
Credevo lo stesso di te ...>
<Non lo siamo
stati creduti tutti, chi prima e chi dopo?>
disse sorridendogli l’uomo dai capelli biondo cenere <Ma dimmi piuttosto, non ti sei ancora stancato di fare
il lavoro sporco per il governo?>
<Che vuoi, Mike?
Perché sei qui?>
<Ho un in mente
un progetto, una cosa grossa... ma per realizzarlo, mi serve un uomo come
te.>
Frank Bohannan si
lisciò per un attimo il mento, poi esclamò:
<Ok, ci sto.>
<Ma come, di già?
Non devo insistere neppure un po’?> chiese l’altro sogghignando.
<Guardami Mike.
E’ tutta la vita che, come dicevi tu, raccolgo l’immondizia per conto dello zio
Sam ... dalla Francia occupata dai nazisti fino a quella maledetta notte in
Kuwait. Ci ho rimesso un occhio e un braccio per loro. E per ripagarmi, che
fanno? Danno l’ordine di abbandonarci! Già, tanto chi se ne frega di noi
maledetti mutanti... siamo carne da cannone, per i politici! E’ stata solo per
la compassione del mio compagno Valanga se non sono crepato in mezzo al
deserto!> [4]
Mike Rogers gli
disse:
< Capisco
benissimo quello che provi ... allora vedrai che ti piacerà quello che ho in
mente...>
Un luogo segreto.
La donna aveva i capelli neri raccolti in uno
chignon e occhi neri e vivaci. Indossava una tuta nera sul cui colletto c’erano
decorazioni dorate. Stava guardando in un microscopio quando alle sue spalle
entrò un uomo con indosso una tuta simile a quelle dell’A.I.M. compreso il
copricapo, ma completamente nera.
<Tutto pronto, dottoressa.>le disse.
<Avete fatto tutte le verifiche?>
chiese la donna senza nemmeno voltarsi.
<Le simulazioni computerizzate danno il
54% di mortalità nei primi 5 minuti per arrivare ad un picco massimo del 98% in
dieci minuti. Margine di errore statistico dello 0,85%.>
<Accettabile.> ribatté lei <Date il
via ai test.>
Yankee Stadium, New York.
Cosa c’è di più
americano di una partita di baseball? Di sedersi sulle tribune, a riempirsi lo
stomaco di schifezze e birra e ammirare i lanci e le battute dei tuoi giocatori
preferiti? Quella sera, poi, in campo contro la squadra di casa c’erano i
Boston Red Sox, gli acerrimi rivali di sempre.
Steve Rogers
ricordava che quand’era piccolo i tifosi degli Yankees prendevano in giro i
rivali per via della cessione di Babe Ruth, in quanto con l’acquisto del
campione loro divennero una delle squadre più vincenti della lega, mentre sui
‘Sox cadde una sorta di maledizione che impedì loro di vincere un trofeo per 86
anni.
Per lui, tifoso dei
Mets, trovarsi lì era quasi imbarazzante, ma aveva un ottimo motivo per stare
lì ad assistere a quella partita.
Nascosto tra i
tralicci per non essere visto, era sulle tracce di Don Manuel Caballero; stando
a quanto gli aveva detto Fury, era quello il posto dove quel presunto
terrorista s’era recato. Trovarlo però era un’impresa disperata. Lo Yankee
Stadium ha una capienza di più di 52mila posti a sedere, e per la grande sfida
di quella sera c’era il tutto esaurito. Steve stava utilizzando il sofisticato
binocolo realizzato dalle Stark Industries in dotazione allo S.H.I.E.L.D. da
quando l’industria di Tony produceva ancora armi per conto del governo; non era
solo un binocolo, ma anche una sofisticata telecamera in grado di confrontare
ogni volto inquadrato con il proprio database, ma anche così non era certo
facile trovarlo.
<Cos’ha in
mente? Qual è il suo obiettivo?>Steve si poneva domande di questo genere di
continuo. Troppe vite dipendevano dalle relative risposte. Si concentrò, nel
tentativo di risolvere quell’enigma.
<Un terrorista
in mezzo ad un grande evento pubblico. Un omicidio? Difficile ... perché
eseguirlo qui, in mezzo tutte queste persone? E se sì, chi? Un’esecuzione
pubblica di qualcuno?> non lo convinceva.
<No, dev’essere
qualcosa di più plateale, vistoso... meno sottile. Forse un’esplosione... ma
dove potrebbe piazzare gli
esplosivi?>
Poi gli venne un
illuminazione, la classica “lampadina che ti si accende in testa”.
<Qualsiasi sia
il suo folle piano, necessiterà di una grande libertà di movimento, per poterlo
eseguire e poi fuggire... ammesso che non si tratti di un kamikaze ...>
Si mise a cercare
scrupolosamente nei vari settori i venditori ambulanti di hot dog. La sua
intuizione si rivelò giusta, perché in quello riservato ai tifosi ospiti
identificò l’uomo che stava cercando. Ora bisognava neutralizzarlo senza
mettere in pericolo gli altri spettatori.
Don Manuel
Caballero salì la gradinata tornando nel sottopassaggio. Nessuno badava a lui:
gli occhi di tutti erano puntati sulla montagnetta del lanciatore, dove era
appena salito Tommy Young, ex stella dei Giants[5] e ora
beniamino della squadra locale. Alla battuta il suo eterno rivale, l’asso dei
Red Sox Alexander Mitchell.
Steve approfittò
del momento clou della partita per intervenire: prese alle spalle il messicano,
tappandogli la bocca, e lo portò in un angolo isolato dove nessuno li avrebbe
notati.
<Ok, so
benissimo che non sei chi dici di essere, “Manuel Caballero”. Ora tu mi dirai
il tuo vero nome, per chi lavori e qual è il vostro piano, intesi? Guarda che
non scherzo!>
Vedendosi scoperto,
il terrorista estrasse dalla tasca uno speciale coltello, la cui lama era
composta non di metallo ma di una strana energia verde. L’ex Capitan America
schivò il tentativo di accoltellamento e poi attivò il suo scudo energetico.
<Sì, non sei
l’unico a disporre di questo genere di armi... ora dimmi chi ti manda o
inizierò a fare sul serio...>
L’uomo non aprì
bocca. Per chiunque lavorasse, era un vero professionista: non avrebbe detto
nulla che lo avrebbe tradito. Il pugnale danzò un paio volte vicino a Steve, ma
non potè nulla contro il suo scudo. Doveva chiuderla in fretta, per evitare che
qualcuno venisse coinvolto ; studiando il suo corpo privo di sensi avrebbe
comunque ottenuto le risposte che voleva. Parò l’ennesimo fendente e lo colpì
in testa con un calcio alto magistralmente eseguito. Una volta a terra, ormai
K.O., Steve gli esaminò attentamente il volto, ma non apparteneva a nessuno che conoscesse. Se quello era il suo vero viso, doveva
trattarsi di qualcuno ignoto a tutti i database di intelligence noti allo
S.H.I.E.L.D. Difficile, ma non impossibile.
Più probabile che si fosse sottoposto a quella plastica facciale
istantanea di cui gli aveva parlato Fury. Se non gli avevano alterato anche le
impronte digitali, forse avrebbero cavato qualcosa da quelle.
<Il segnalatore
di Amadeus non ha rilevato nulla, dunque non è un LMD. Potrò interrogarlo una
volta alla base.>
Si mise a perquisirlo, cercando di trovare il
minimo indizio su quale potesse essere il suo obiettivo, ma non trovo nulla.
Prese in mano l’insolita arma del suo avversario e la analizzò attentamente.
<Sembra
tecnologia AIM., anche se questo non significa niente ... potrebbero avergliela
fornita ma non vuol dire necessariamente che lavori per loro.> Steve era
perplesso. C’erano tante cose senza senso in quella storia.
Andò poi al vassoio
degli hot dog, prendendo alcuni campioni di cibi, bevande e salse varie da far
analizzare in laboratorio, tuttavia nessuno tra il pubblico sembrava aver
riscontrato malesseri, per cui si sentiva di escludere un avvelenamento; non
gli rimase che trarre una che trarne una sola conclusione.
<Base, qui
comandante Rogers. Obiettivo numero uno neutralizzato. Devo ispezionare lo
stadio per accertarmi che non ci presenza di ordigni esplosivi, ma ho motivo di
credere che il mio bersaglio fosse uno dei depistaggi. Attendo aggiornamenti
sugli altri due soggetti. Chiudo.>
Herald
Square, 34esima strada, Manhattan.
Il
centro commerciale Macy's di New York è
noto come il più vasto grande magazzino del mondo. Tappa fissa, per i turisti
in cerca di regali; con oltre 10 piani, ognuno grande quanto un intero isolato,
offre ai suoi clienti il miglior servizio possibile in fatto di shopping. A
pattugliare l’edificio erano stati scelti Sharon Carter e Nomad.
<Mi
dici come facciamo a trovare un solo uomo in questo mare di gente? Non è
possibile!> si lamentò Jack.
<Non
sapevo che fossi il tipo da scoraggiarti subito...>
<Infatti
non lo sono ... di solito. Ma devi riconoscere che è un’impresa impossibile
...>
<Non
del tutto. Abbiamo i distintivi fasulli procuratoci da Nick no? Diremo che
siamo dell’FBI , quelli della
sicurezza ci aiuteranno. Io vado a chiedere di poter vedere le registrazioni
delle telecamere, tu intanto vatti a fare un giro nella zona d’abbigliamento
maschile ... i salottini di prova sono il luogo ideale per isolarsi e magari il
nostro uomo li ha scelti per comunicare con i suoi capi.>
<Ok,
vado.> Il piano di Sharon aveva
evidentemente senso, anche se dividersi non era quello che Jack aveva in mente.
Avrebbe voluto approfittare dell’occasione di poter stare un po’ solo con lei
per continuare il discorso che aveva iniziato prima che Steve li convocasse
alla base... ma d’altro canto, erano in missione, e quando si è in missione
conta solo quella. Cercò di concentrarsi e di cercare di trovare questo “John
Bronson”; provò da Louis Vuitton, da Calvin Klein e in altri reparti di celebri
stilisti.
Il
tempo trascorreva, ma nulla. Provò allora a contattare Sharon con l’auricolare
per vedere se avesse avuto maggiore fortuna:
<Trovato
nulla dai filmati?>
<<Ancora
nulla... e neppure tu, deduco ...>>
<Infatti.
Son due ore che vado in giro a vedere camicie e pantaloni... una tortura! Ma
come fate voi donne a farlo in continuazione? Forse avremmo dovuto scambiarci
di ruolo ...>
<<Ehi ehi forse
ho trovato qualcuno che assomiglia al nostro amico ... secondo piano, articoli sportivi: sta
visionando dell’attrezzatura da hockey!>> disse la donna.
<Vado!>
si mise a correre lungo le scale mobili, spintonando i clienti nella fretta.
Raggiunse in men che non si dica il reparto sport indicatogli per auricolare. Cercò
poi di mantenere un’andatura normale, tranquilla, mentre si avvicinava al suo
obiettivo. Non lo vide subito, Bronson o chi si spacciava per lui cercava di
mantenere un profilo basso, ma non appena incrociarono i rispettivi sguardi
capirono immediatamente tutto l’uno dell’altro.
<Probabilmente
sarà armato.> riflettè Nomad tra sé e sé
< Devo portarlo fuori di qui, disarmarlo e...> all’improvviso
alcuni uomini della security arrivarono
sul posto avvicinandolo per primo.
<Signore
, mi scusi, può venire con noi?> disse uno di loro.
<No,
idioti! Così lo obbligherete a reagire!>
pensò Jack, e la sua supposizione si rivelò esatta: John Bronson infatti
colpì l’agente e si diede alla fuga, facendo cadere diversi appendiabiti di
metallo lungo il tragitto, per ostacolare gli inseguitori, ma per Jack non fu
certo un problema evitare gli improvvisati ostacoli.
<Sharon,
sono Jack. Il bersaglio è in fuga, gli vado dietro!>
Il
terrorista, com’era prevedibile, era armato ed estrasse una pistola che sparava
raggi, scatenando il panico tra la clientela terrorizzata.
Non
poteva sperare di riuscire a sfuggire a Nomad, che non riusciva a seminare.
Arrivarono al primo piano quando nella foga della corsa urtò una ragazza che
stava facendo acquisti; le strinse un braccio intorno al collo e le puntò la
pistola alla testa.
<Indietro,
fatti da parte. Lasciami stare o le faccio saltare il cervello. Vattene!>
Un
ostaggio. Jack temeva una cosa del genere. Per questo aveva cercato di
prenderlo di sorpresa, ma l’arrivo della security aveva mandato a monte la sua
strategia. Ora aspettava solo il momento giusto per intervenire. Una mossa
sbagliata e la ragazza ci avrebbe rimesso la vita.
L’atmosfera era tesa.
Improvvisamente
il terrorista cadde a terra, privo di sensi, lasciando andare la giovane, in
lacrime. Jack notò un dardo stordente alla nuca. Era stata Sharon a spararlo.
<L’hai
preso ...> disse lui.
<Già.
Scusa, non sono riuscita a fermare le guardie... appena ho rivelato loro chi
era il nostro bersaglio, hanno voluto intervenire. Erano in buona fede,
volevano darci una mano ...>
<E
invece hanno fatto precipitare le cose. Dovrebbero lasciare fare a noi
professionisti ...>
Sharon
perquisì l’uomo, ma non trovò nulla di sospetto su di lui... né un detonatore,
una cimice o una fiala di gas ... niente di niente.
<E’
strano. A parte la pistola, non ha nulla di anomalo addosso. Proviamo a
togliergli la maschera ...>
Ma
non aveva nessuna maschera da togliere. Sharon era decisamente seccata. Se solo
ci fosse stato un indizio della vera identità di Mister Bronson … il suo modo
di muoversi le era sembrato in qualche modo familiare. Possibile che l’avesse
conosciuto in passato? E se sì quando? Fu solo un caso se trovò quel che
cercava: una cicatrice tra il pollice e l’indice della mano destra.
<No…>
si lasciò sfuggire.
<Cosa
c’è?> le chiese Nomad.
<Conosco
quest’uomo… almeno credo. Geoffrey
Ballard, un ex agente della C.I.A.>
<Un
amico tuo?>
<Non
direi proprio. L’ultima volta che l’ho visto mi ha sparato nella schiena e
lasciata a morire nelle giungle del Sud Est Asiatico, sempre che sia davvero
lui. Avevo sentito dire che l’avevano fatto fuori a Singapore… ma del resto
anch’io avrei dovuto essermi fatta bruciare viva a New York[6] e
invece sono ancora in giro.>
Jack
era sorpreso ed anche ammirato da come Sharon parlava con disinvoltura di
eventi che dovevano essere stati traumatici. Sharon era sempre molto riservata
sul periodo che aveva passato all’estero dopo che era stata dichiarata
ufficialmente morta in azione. Qualunque cosa le fosse successa non doveva
essere stata piacevole, visto che la ragazza dolce di cui gli aveva parlato
qualche volta Steve era diventata dura, cinica e a volte perfino spietata, ma
non l’aveva spezzata e Jack ne era felice.
Metropolitan Opera House,
Il Metropolitan
Opera House è considerato il teatro d'opera più grande del mondo. Fu
fondato nel 1880 e da allora tutti i più grandi e famosi tenori vi si sono
esibiti. Sul suo palco, il grande Luciano Pavarotti eseguì una leggendaria
esibizione con ben nove acuti, che gli procurò una standing ovation senza
precedenti che lo chiamò al sipario per ben 17 volte, un primato ancora oggi
imbattuto. Quella sera era la volta del maestro Plácido Domingo nella sua interpretazione de
“
Yelena Belova, non
nella sua uniforme da Vedova Nera ma in un elegante abito da sera, s’era seduta
in fondo al palco riservatole grazie a Nick Fury per tenere comodamente
d’occhio la platea e gli altri palchi alla ricerca di Alì Bey. Come Steve,
anche lei utilizzava un sofisticato binocolo, ma il suo era stato elaborato da
Amadeus Cho per apparire come quelli caratteristici adoperati dalle signore
dell’alta società per gli spettacoli teatrali, con tanto di elegante
impugnatura.
Il Soldato
d’Inverno invece, com’era suo solito, stava nell’ombra, lontano dagli sguardi
della gente, monitorando la situazione senza essere visto. La solita routine,
per lui. La sua memoria “ballerina” tirò fuori un vecchio ricordo, di quando si
trovava al Teatro degli Stati di Praga nel 1962, per uccidere
un ambasciatore inglese mentre si stava godendo il Don Giovanni
di Mozart. Si rese conto che,
praticamente, da quando operava per conto di Steve il suo lavoro consisteva nel
fare quello che faceva prima, solo che con l’intento opposto: salvare delle
vite anziché uccidere. E la cosa lo faceva stare bene.
Nel suo auricolare risuonò improvvisamente la
voce di Yelena:
<<L’ho visto. Nel palco di fronte al mio. È solo.>>
<Bene, vado ad intercettarlo.>
<<Ti raggiungo appena posso.>>
Il Soldato d’Inverno si mosse molto
rapidamente e spalancò la porta del palco proprio mentre il suo avversario
stava estraendo da una borsa una strana pistola.
<Fermo!> gli intimò.
L’altro imprecò, innervosito dall’inaspettato
arrivo.
<Maledetto impiccione ...> gli
disse guardandolo con odio. C’era qualcosa di familiare nell’accento, qualcosa
che il Soldato d’Inverno faticava a ricollegare. Dove l’aveva già sentito?
L’altro fece un rapido gesto con la mano
destra e si udì un lieve sibilo. Un coltello sfrecciò vicino alla testa di
Bucky che lo evitò per un pelo mentre la lama si piantava nello stipite della
porta. In seguito Bucky si sarebbe chiesto se erano stati solo i suoi riflessi
a salvarlo o se il suo nemico non avesse sbagliato mira per la fretta, ma non
era importante al momento. Si gettò sul suo avversario ed insieme rotolarono a
terra. Con sorpresa di Bucky, l’altro lo fece volare sopra la sua testa e si
rimise in piedi rapidamente quanto lui.
Cominciarono a lottare. Il giovane era
decisamente molto in gamba. Bucky riconobbe vari stili di lotta orientale ma
non solo. Chiunque fosse il suo avversario, aveva avuto un addestramento di
prim’ordine.
<Ti fai passare per Saudita, ma non lo
sei. Da dovunque tu venga, non sei
arabo. Per chi lavori in realtà?> chiese Bucky.
< Non ti aspetterai davvero che risponda
alla tua domanda?> rispose l’altro, attaccandolo.
<Il tuo accento è Dari… sei un
Persiano dell’Afghanistan.> disse, continuando a battersi.
<I miei complimenti, uomo mascherato, Non
sono in molti a saper riconoscere il mio accento. Non sei un normale agente
governativo… no, sei troppo abile, troppo esperto. Chi sei? >
<Qui le domande le faccio io. Mi chiamano
Soldato d’Inverno e non ti serve sapere altro ….>
<Che cosa? Hai detto … il Soldato
d’Inverno? > per la prima volta Bucky sentì la voce del suo avversario
vibrare di emozione.
<Tu sei… no, è impossibile! il Soldato
d’Inverno ha ucciso i miei genitori quando avevo 5 anni, ma tu sei troppo
giovane per essere quell’uomo!>
Bucky si bloccò di colpo. I ricordi lo
colpirono come una mazzata. Per un breve istante fu di nuovo sui monti afgani
mentre sparava centrando in pieno un uomo in mezzo alla fronte, poi fu la volta
della donna al suo fianco. Un decimo di secondo per inquadrare nel mirino il
bambino e decidere di passare all’autista.
Non poteva essere possibile.
Ma lo era.
Lo shock gli fu fatale: abbassò la guardia
per un secondo di troppo. Un calcio rotante del suo avversario lo colpì al
plesso solare ed un secondo lo raggiunse all’inguine.
Cadde in ginocchio in preda al dolore mentre
udiva la voce del nemico.
<Ti sei battuto bene, ma hai perso. Il
vincitore sono io.>
Bucky udì un colpo secco simile a quello di
un tappo di champagne che viene stappato.
Aveva fallito, ma il prezzo del suo
fallimento lo avrebbero pagato altri.
CONTINUA…
NOTE DEGLI
AUTORI
Non
c’è molto da dire su quest’episodio, quindi sbrighiamoci.
1) Come ha puntualizzato Nick Fury nel corso della
storia, l’Emiro Ali Bey e Don Caballero erano due alias usati dal Barone
Strucker per nascondere la sua vera identità, mentre John Bronson era il nome
di un vero agente dello S.H.I.EL.D. ucciso da Strucker che si servì della sua
identità per infiltrarsi nell’organizzazione diretta da Nick Fury. Strucker
usava effettivamente una macchina fantascientifica che permetteva di cambiare
faccia in pochi istanti, ma l’idea che sia stata creata dai geni dell’A.I.M. è
di uno dei modesti autori di questa storia. -_^
2) Monica Rappaccini è stata creata da Fred Van Lente
& Leonard Kirk su Amazing Fantasy Vol. 2° #7, attualmente inedito in
Italia. L’A.I.D. (Advanced Ideas of Destruction) è una creazione di Ed Brubaker
& Steve Epting su Captain America Vol. 5°
2 (In Italia su Thor
& I Vendicatori, Marvel Italia, #79), due storie fuori continuity MIT. Entrambi sono
stati introdotti in MIT su Marvel Knights #46, dove
3) Crimson Commando, alias Frank Bohannan è un
personaggio creato da Chris Claremont & Alan Davis su Uncanny X-Men #215
(In Italia su Gli Incredibili X-Men, Star Comics
#24) e presentato come un
mutante il cui potere è sostanzialmente di aver raggiunto il picco della
perfezione fisica umana (in poche parole, la sua mutazione consiste nell’avere
le stesse capacità ottenute da Steve Rogers con il siero del Super Soldato,
cosa che tra l’altro gli ha permesso di invecchiare molto lentamente.). La
missione in cui rimaneva ferito, ragion per cui parti del suo corpo furono
rimpiazzate con “migliorie” bioniche era originariamente ambientata nel Kuwait
invaso dall’Iraq durante
4) Geoffrey Ballard è un altro personaggio creato da
Chris Claremont, questa volta con l’aiuto grafico di Rich Buckler, nella serie Black
Goliath e
precisamente nel #4 (In Italia su Thor, Corno, #178), presentato come un ex agente della C.I.A.
passato alla Sicurezza Nazionale dai metodi discutibili. Dopo la chiusura di
Black Goliath, Ballard riapparve nella serie di Miss Marvel, dove si scoprì che
era segretamente alleato di Raven Darkholme, alias Mystica, e che entrambi
erano agenti di un non meglio identificato Consiglio, che visto il periodo in
cui uscì la storia (1978), era quasi certamente il Cerchio Interno del Club
Infernale diretto da Sebastian Shaw, Nella sua ultima apparizione Ballard si
era impadronito di un’armatura chiamata Centurion che cercò di usare per
uccidere Miss Marvel ma fui sconfitto dalla supereroina (su Miss
Marvel Vol. 1° #18,
in Italia su Fantastici Quattro #233). Dopo di allora non si è saputo nulla di lui…
fino a quello che è stato rivelato in questo episodio.
Nel
prossimo episodio: il Soldato d’Inverno ha fallito e questo errore potrebbe
costare molte vite umane. Ma qual è il vero piano della Dottoressa Rappaccini?
Perché avrebbe mandato tre agenti facilmente identificabili per fare il suo
lavoro? La risposta a queste domande nel prossimo episodio. In più: una nuova
recluta per Mike Rogers.
Carlo e Carmelo
[1] Il perché è spiegato nella serie MIT di Nick Fury,.
[2] Nell’episodio #8.
[3] Il servizio di informazioni all’estero della Federazione Russa
[4] Uncanny X-Men Annual #15 (In Italia su Gli Incredibili X-Men #0)
[5] * Tommy, la stella dei Giants ( in originale Kyojin no Hoshi) è il titolo italiano di una serie anime giapponese. Mi sono divertito a citarla - Carmelo
[6] Nell’ormai classico Captain America #237 (In Italia su Uomo Ragno, Corno, Seconda Serie #51).